La posta in gioco: diritti a marcia indietro

I nuovi nazionalismi e la minaccia ai diritti, al pluralismo e all’azione di chi ogni giorno si impegna per affermarli

EUROPA, MIGRANTI E SOCIETÀ CIVILE ORGANIZZATA SONO DIVENTATI I “NEMICI PERFETTI” DI CHI VUOLE MURI FISICI, LEGALI E SOCIALI. PER QUESTO NON POSSONO CHE ESSERE IL “CUORE” DA CUI DEVE RIPARTIRE L’IMPEGNO PER COSTRUIRE UNA COMUNITÀ UNIVERSALE DI VALORI.

di Valerio Bini, Presidente Federazione Mani Tese

In Europa, negli ultimi anni, sta crescendo il dibattito intorno all’arretramento dei diritti civili e al restringimento degli spazi democratici. Il fenomeno è legato al crescente consenso acquisito da movimenti e partiti politici di diversa matrice, ma uniti da un forte richiamo alla dimensione nazionale e da una generale ostilità al pluralismo culturale e politico. Nella storia, ciclicamente, soprattutto nei momenti di difficoltà economica, riappare la tentazione di affidarsi al nazionalismo autoritario. Anche geograficamente possiamo osservare questo movimento di restringimento degli spazi democratici in molti contesti diversi: nei Paesi poveri, in quelli a medio reddito e ora anche nelle punte più avanzate dell’economia mondiale. Ce ne occupiamo ora per due ragioni: la prima è perché in Europa questi movimenti stanno facendo arretrare la frontiera dei diritti acquisiti, mettendo a rischio decenni di faticose conquiste sociali e politiche; la seconda, complementare, è perché, molto semplicemente, questi movimenti e partiti hanno iniziato a “occuparsi” di noi, della società civile, ostacolando legalmente e illegalmente il nostro lavoro quotidiano a sostegno dei diritti umani universali.

Nazionalismi globali

È perlomeno dalla fine della guerra fredda che i nazionalismi sono tornati in auge. Prima sembravano piccoli e lontani – in Africa (ma lì, li chiamiamo guerre etniche), nei Balcani, nell’ex Unione Sovietica – poi sono cresciuti e si sono avvicinati e occupano ora la scena politica mondiale, con slogan sempre simili, in una paradossale “globalizzazione dei nazionalismi”: “America First”, “Believe in Britain”, “La France aux français”, “Prima gli italiani”… Del resto, il nazionalismo non è certo una novità in Europa: i popoli europei si sono fatti attrarre ripetutamente dalla tentazione di trovare nella comunità del sangue un principio di coesione. L’Unione Europa stessa nasce sulle ceneri del secondo conflitto mondiale, che, alimentato dai nazionalismi, ha lasciato sul campo circa 20 milioni di vittime, solo nei Paesi del Vecchio Continente.

Il nucleo del progetto europeo è invece la volontà di declinare l’appartenenza in chiave progettuale, come comunità di intenti, e non più come pedigree, come discendenza che esclude gli impuri. Il paradosso è che l’Unione Europea è parzialmente riuscita in questo progetto e solo sei anni fa ha ricevuto il premio Nobel per la pace proprio per aver “contribuito al progresso della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani”. Ora però “l’internazionale nazionalista” vuole tornare indietro, chiudere le frontiere e ricominciare a costruire muri fisici, legali, mentali. Per portare avanti questo progetto, però, ha bisogno dell’altra componente propria di ogni nazionalismo e complementare alla comunità del sangue: la costruzione del nemico.

Costruire nemici

L’affermazione dei nazionalismi si accompagna sempre con la produzione di nemici da combattere, lungo tre direzioni: la dimensione sovranazionale, gli stranieri, i nemici interni. La comunità internazionale è il nemico più semplice, quello sul quale scaricare i propri limiti: un tempo era la “Società delle Nazioni”, oggi è l’“Unione Europea” che ostacola il pieno compimento delle potenzialità nazionali. Concretamente significa abbandonare le prospettive di multilateralismo a favore di politiche “muscolari” promosse dai singoli Stati. Gli stranieri sono il nemico più profondo: una volta definita una mitica discendenza comune, è sufficiente identificare gli impuri, classificarli, limitarne le condizioni di accesso ai diritti e poi progressivamente alzare la soglia del conflitto. Perché, come diceva un mio professore catalano, il nazionalismo è come una bicicletta: sta in piedi solo se lo spingi sempre avanti, aumentando la violenza e restringendo il concetto di comunità. Il razzismo quotidiano che leggiamo sui giornali è significativo proprio per il suo carattere non episodico, ma sistemico: restringimento della protezione umanitaria, detenzioni senza giudizio per gli stranieri in posizione irregolare, limitazione dei diritti e dei servizi sociali sulla base del Paese di origine. Alla fine di questo percorso di erosione dei diritti, l’Altro non c’è più, non è più un soggetto. Anche questo l’abbiamo già visto in Europa, ma non solo: “inyenzi”, scarafaggi, erano chiamati i Tutsi dagli estremisti Hutu prima di essere massacrati.

L’ultimo nemico è il più fastidioso, perché interno: il disfattista, il “fratello” che tradisce la causa sostenendo l’universalità dei diritti. La storia della repressione della società civile da parte dei movimenti e dei regimi autoritari è infinita. Oggi la ritroviamo nelle leggi contro le associazioni in Ungheria e Romania, nei provvedimenti sull’ordine pubblico in Francia e in Spagna, nella campagna del governo italiano contro le ONG, nelle intimidazioni nei confronti delle organizzazioni di promozione dei diritti umani in tutta Europa. Dopo decenni in cui la libertà di espressione si andava estendendo, ora, anche in Europa, la vediamo arretrare. La giustificazione, oggi come in passato, è che non c’è bisogno di organizzazioni critiche, perché la società civile è già rappresentata dai partiti al governo che se ne fanno interpreti.

La posta in gioco

Osservando questo processo di costruzione dei nemici, emerge, per differenza, in controluce, la posta in gioco delle battaglie politiche contemporanee. Le tre categorie colpite dai nazionalisti – Europa, migranti e società civile – costituiscono il cuore della reazione che occorre mettere in campo per invertire la tendenza all’arretramento dei diritti. E non si sceglie, non si può sacrificare un ambito a favore di un altro perché sono parti di una stessa battaglia per allargare la sfera dei diritti individuali e sociali. Senza l’Europa, si torna alla competizione tra Stati che tutto ha prodotto tranne che benefici per i popoli europei; senza migranti, la battaglia per l’Europa rimane quella a difesa di un establishment burocratico che, per dirla con le parole di Frantz Fanon “non hai mai smesso di parlare dell’uomo mentre lo massacrava dovunque”; senza società civile avremo istituzioni sempre più autoritarie e gli stranieri saranno il primo obiettivo, ma poi, parafrasando Bertolt Brecht, “verranno a prendere anche noi”. Allora al centro del nostro discorso rimane l’Europa dei diritti che, proprio in quanto diritti, sono per definizione universali, per tutti. Altrimenti si chiamano privilegi.

Leggi gli altri articoli di “S.O.S. DIRITTI”, il nuovo numero del giornale di Mani Tese, il nostro storico organo di informazione che da oltre 40 anni approfondisce i temi legati alla cooperazione e all’attualità.

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